Violenza sulle donne con disabilità e comunicazione distorta

4 Nov 2014 | News

a cura di Simona Lancioni*

31.10.2014

Per una donna con disabilità non sempre è così facile chiedere aiuto in caso di violenze. Se si parla poi di disabilità intellettiva, una comunicazione distorta potrebbe significare non rilevare violenze realmente accadute o denunciarne altre di inattendibili. Si pensi, ad esempio, ai casi di denunce di abusi sessuali ai danni di persone con autismo, sostenute facendo ricorso alla “Comunicazione Facilitata”, metodo non scientificamente validato per l’autismo. Di questo e altro abbiamo parlato con Carlo Hanau, da lungo tempo esperto del settore

Foto in bianco e nero di giovane in ombra, simbolo di chi subisce violenzeGli episodi di violenza nei confronti delle donne sono, purtroppo, oggetto di cronaca quotidiana. L’emancipazione delle donne da tali situazioni comporta una serie di passaggi preliminari. È necessario, innanzitutto, che la donna che subisce violenza diventi consapevole della stessa, che la riconosca come tale. È inoltre fondamentale che maturi la convinzione di non volerla più subire. È indispensabile, infine, che compia scelte e azioni finalizzate a far cessare la violenza, eventualmente chiedendo aiuto e supporto esterno.
Se la protagonista del percorso di emancipazione dalla violenza è una donna con disabilità, ciascuno dei passaggi citati andrebbe rivisitato e integrato con considerazioni che tengano in debito conto le specifiche situazioni ed esigenze ingenerate dalle diverse disabilità (fisiche, sensoriali, intellettive, plurime).
Alcune operatrici dei Centri Antiviolenza affermano che i passaggi più difficili sono i primi due. Spesso, infatti, le donne si sentono responsabili della violenza che subiscono, fino a colpevolizzarsi, oppure tendono a minimizzarla, a scambiarla per “interesse” nei loro confronti, raramente percepito da parte degli uomini, nella società. Finché non mutano questi atteggiamenti di fondo, è molto difficile che si verifichino ulteriori cambiamenti.
Supponiamo ora che la consapevolezza sia stata acquisita, e supponiamo anche che la donna in questione sia molto determinata nel volersi sottrarre alla violenza. Nel caso però in cui la donna sia disabile, è davvero così semplice chiedere aiuto?

Dal 2006 il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio ha attivato il numero di pubblica utilità 1522, attraverso il quale si accede al sistema per l’emersione e il contrasto del fenomeno della violenza intra ed extrafamiliare a danno delle donne. Tuttavia, per potere attivare il servizio attraverso questa modalità, è necessario che la donna abbia la possibilità di utilizzare il telefono con le modalità tradizionali, la qual cosa esclude, ad esempio, tutte le donne con disabilità che comportano una compromissione significativa o l’assenza del linguaggio verbale e le donne con sordità (nei casi in cui l’ipoacusia, anche grave, non sia stata superata attraverso l’impiego della tecnologia) o con altri disturbi che compromettono la comprensione dei messaggi orali [su tali temi si legga, sempre nel nostro giornale, l’ampia intervista di Simona Lancioni a Laura Raffaeli, intitolata “Come le altre, anche nei casi di violenza”, N.d.R.]. Può inoltre escludere anche molte donne impossibilitate all’uso degli arti superiori, nei casi in cui esse possano accedere al telefono solo con l’aiuto di terzi, e gli unici terzi a loro disposizione siano gli stessi autori della violenza che vorrebbero denunciare, oppure persone legate a questi ultimi (e che, dunque, potrebbero avere interesse a coprirli).
Una possibile risposta a questo genere di problemi consiste nel predisporre altri canali d’accesso ai servizi, oltre a quello telefonico: e-mail, chat, videotelefono, facebook, messenger, ooVoo, whatsapp, skype… giusto per citare quelli più comuni. Ma basta? No, non basta. Rimangono aperti, e largamente scoperti, i temi della prevenzione e delle risposte alle violenze ai danni di persone con disabilità intellettive, anche lievi, ma tali da comprometterne l’autonomia.

È un tema – quello dell’autonomia della donna nel prendere l’iniziativa per contattare i Centri Antiviolenza – che viene costantemente sottolineato dai Centri stessi i quali la reputano una condizione imprescindibile nella fase del primo contatto. Ma se la donna non ha autostima, sicurezza di sé e tantomeno autonomia, come può da sola orientarsi – anche qualora venga attivato un sistema di comunicazione “multicanale” – verso uno Sportello o un Centro? Ha bisogno di un supporto e di mediazione da parte di qualcuno/a, dal momento in cui manifesta e comunica una chiara volontà di porre fine alle vessazioni e alla violenza subìta quasi sempre in àmbito domestico o tra le mura di una comunità protetta, in una condizione di isolamento dal mondo.
Rimane comunque necessario interrogarsi sulla validità del sistema di comunicazione utilizzato in tutte le situazioni nelle quali la persona vittima di violenza non può esprimersi in modo autonomo. Esprimersi in modo autonomo, infatti, non vuol dire necessariamente riuscire a parlare; potrebbe voler dire, ad esempio, poter scrivere, potere utilizzare un computer, oppure una tavoletta trasparente con le lettere da indicare con lo sguardo, farsi insomma capire in un qualche modo.
La discriminante tra una comunicazione autonoma e una non autonoma consiste nel fatto che nella prima i contenuti sono espressi direttamente dalla persona disabile con o senza il ricorso a specifici ausili, mentre nella seconda la comunicazione contempla la presenza di uno/a intermediario/a (uno/a interprete, uno/a facilitatore/trice) che, sia pure in buona fede, potrebbe condizionare la persona con disabilità, oppure attribuirle affermazioni che in realtà sono dell’intermediario/a stesso/a.
Questo non significa che una “comunicazione mediata o supportata” sia sempre da scartare, vuol dire “semplicemente” che di volta in volta è necessario interrogarsi sulle specifiche situazioni, e sulla validità o meno dei sistemi di comunicazione utilizzati in relazione alle diverse disabilità.

Carlo Hanau
Carlo Hanau è membro del Comitato Scientifico dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici) e docente di Statistica Medica e di Programmazione e Organizzazione dei Servizi Sociali e Sanitari all’Università di Modena e Reggio Emilia
Questo aspetto, come è facile intuire, ha un’incidenza enorme sulla vita e sulla libertà della persona con disabilità. Nell’àmbito del contrasto alla violenza, infatti, una comunicazione distorta potrebbe significare non rilevare delle violenze realmente accadute, oppure denunciare delle violenze basandosi su prove inattendibili. Rientrano in quest’ultima fattispecie alcuni casi di denunce di abusi sessuali ai danni di persone con autismo, sostenute facendo ricorso alla cosiddetta “Comunicazione Facilitata”, metodo non scientificamente validato per i casi di autismo.

Per capire meglio questi aspetti, ci siamo rivolti a Carlo Hanau, membro del Comitato Scientifico dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici), docente di Statistica Medica e di Programmazione e Organizzazione dei Servizi Sociali e Sanitari presso il Dipartimento di Educazione e Scienze umane all’Università di Modena e Reggio Emilia.
Possiamo convenire infatti che, se da un lato non si può pretendere che chi opera nel sistema di contrasto alla violenza abbia competenza delle tante diverse forme di disabilità, dall’altro si dovrebbe assumere come buona prassi quella di farsi supportare, in relazione ai diversi casi, da soggetti e persone che tali competenze le hanno: nel nostro caso, appunto, il professor Hanau, che ringraziamo, e al quale cediamo subito la parola.

Professor Hanau, può spiegare brevemente che cos’è l’autismo e quali sono i tratti che lo caratterizzano?
«Le sindromi autistiche, riunite nel gruppo Disturbi evolutivi globali della Classificazione ICD 10 delle malattie [decima revisione dell’International Classification of Diseases, N.d.R.], attuata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), vengono indicate come disturbi dello spettro autistico dal DSM V [quinta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, N.d.R.], oppure come disturbi pervasivi o generalizzati dello sviluppo.
Si tratta di sindromi (un insieme di sintomi) determinate da fattori biologici che influiscono sullo sviluppo cerebrale in epoca precoce, cioè durante lo sviluppo fetale o nei primissimi anni di vita. Soltanto per un quinto dei casi le cause sono note (tutte Malattie Rare). La maggior parte sono di natura genetica. Si passa da forme meno gravi, come le sindromi di Asperger, a forme molto complesse e molto gravi, come l’autismo infantile e la sindrome di Rett, le cui cause sono state identificate successivamente in uno qualunque dei seguenti tre geni: MEC P2, CDKL5 e FOX.
Il bambino con autismo infantile presenta importanti difficoltà nell’interazione, nella comunicazione e nelle attività di gioco, che sono per lo più di tipo ripetitivo, con isolamento rispetto ai gruppo dei coetanei. All’autismo spesso si aggiunge il ritardo mentale, che si aggrava o sopravviene col progredire dell’età perché manca la comunicazione. Il linguaggio verbale tipico dell’autismo – quando è presente – è formato da “risposte a pappagallo”, “insalata di parole” non comunicative, inversione pronominale, e risulta spesso non adeguato al contesto; scarso è pure l’utilizzo dei gesti comunicativi. Le immagini sono la forma di comunicazione più facile ad usarsi per comunicare.
Purtroppo il problema della comunicazione per le persone con autismo non consiste nella favella, cioè nella capacità di proferire le parole, come succede in casi di grave spasticità, ma nella capacità di usarle a fini comunicativi e nella comprensione del significato delle parole dette dagli altri. Le persone con sindrome di Asperger, invece, sono perfettamente in grado di usare il linguaggio verbale e quello scritto, anche forbito, per fini comunicativi».

In presenza di una compromissione della comunicazione verbale e non verbale, come avviene l’interazione con le persone che sono interessate da questa patologia, con quali modalità e attraverso quali canali?
«Esistono varie forme di Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA), che possono essere utilizzate per coloro che presentano queste disabilità di comunicazione, le quali sono diverse da quelle più diffuse nei servizi sanitari, ove la logopedia è molto impegnata a riabilitare le perdite provocate da ictus oppure i difetti di pronuncia, come la balbuzie. Per l’autismo, infatti, occorre agire sul difetto della comunicazione e non tanto sulla fonetica, che costituisce invece il principale campo di esperienza del logopedista “generico”.
A questi bisogni speciali del disturbo autistico occorre rispondere con competenza ed esperienza specifiche, che possono essere accumulate soltanto da un logopedista che si specializzi in questo campo, oppure da uno psicopedagogista di formazione comportamentale (ABA, Applied Behavior Analysis, ovvero “Analisi Comportamentale Applicata”), che intervenga complessivamente sulle autonomie, fra le quali è compresa anche quella della comunicazione. Non è un caso che una delle strategie comportamentali più utilizzate si chiami proprio ABA Verbal Behaviour, con riferimento al “comportamento verbale”, e che per le persone con autismo che non parlano si debba spesso utilizzare, almeno in prima istanza, la figura dell’oggetto, dato che il collegamento fra un oggetto e una parola che lo rappresenta (un grafo che corrisponde a un fonema e non alla figura dell’oggetto) richiede un’abilità mentale difficile da conquistare, come dimostra ancora oggi la lingua cinese con i suoi pittogrammi, dove la scrittura della parola casa consiste nella figura stilizzata di una casa.
Una via di comunicazione alternativa alle parole consiste nell’uso delle figure, per le quali le persone con autismo dimostrano molto spesso di avere migliore comprensione e più facile uso. Vi sono metodi come il PECS (Picture Exchange Communication System, una serie di figure in un mazzo, facilmente estraibili per indicare i bisogni della persona), che da decenni vengono utilizzati con buoni risultati. Da qualche anno, poi, sono disponibili anche i comunicatori elettronici, in particolare tablet predisposti allo scopo, oppure applicazioni su computer e smartphone, che consentono agevolmente di scendere lungo un “albero di decisioni” rappresentato da figure via via più specifiche, partendo ad esempio da un piatto per indicare il bisogno di mangiare, fino ad arrivare alla composizione del menù della prima e della seconda portata. È del resto quanto viene attuato, con mezzi più semplici, da parte dei ristoranti per stranieri, incapaci di comprendere il significato delle parole: inseriscono nel menù la foto del piatto accanto alla parola.
Ragazzo con dei cubi colorati davanti, che compongono la parola “Autism”Mi sono stati descritti diversi casi in cui la persona con autismo sa ripetere benissimo una parola come “acqua”, anche nella maniera ossessiva tipica del linguaggio autistico, ma non sa connetterla col suo bisogno di bere acqua, per cui l’acquisizione della dizione della parola non è sufficiente per giungere a un linguaggio comunicativo.
Può dimostrarsi accessibile l’utilizzo di una lingua dei segni, purché semplificata. Infatti la Lingua Italiana dei Segni (LIS) esige, proprio come il linguaggio parlato, la comprensione del legame fra un oggetto e la sua evocazione ed è quindi troppo complessa per avere successo. Se dovesse avere successo immediato, si dovrebbe dubitare sulla diagnosi di autismo, poiché il deficit consisterebbe nell’espressione del linguaggio, più che nella sua comprensione a livello cerebrale.
Ovviamente, l’abilitazione e l’evoluzione naturale dello sviluppo possono migliorare questi deficit: nessuna situazione può dirsi immutabile. In tal senso è frequente l’evoluzione dal linguaggio delle figure o da quello dei segni alla possibilità di pronunciare in modo comprensibile le parole.
Mi è stato anche riferito da due genitori del caso di un bimbo autistico con mutismo assoluto che frequentava le elementari e che la maestra considerava come incapace di comprendere il linguaggio. Un giorno si trovò per la prima volta davanti a una macchina da scrivere e digitò un messaggio, lamentandosi che la maestra lo considerasse stupido, mentre egli aveva imparato a leggere come gli altri compagni, pur essendo incapace di scrivere a mano e di parlare. Ci si può chiedere come mai nessuno avesse mai provato prima a dargli un alfabetiere con lettere componibili in parole su lavagne magnetiche. Non è raro, del resto, che i bambini con autismo abbiano delle abilità che non mostrano e sia la diagnosi medica che quella funzionale devono scoprirle per evitare errori diagnostici. Infatti, può succedere che venga scambiato per autismo il mutismo, dove il deficit è limitato all’espressione vocale delle parole e non alla comprensione e all’uso appropriato delle stesse. In questi casi può venire a mancare una delle componenti della triade che caratterizza l’autismo nella citata Classificazione ICD 10. Non si tratta quindi solo di evitare errori diagnostici, ma anche di consentire di sviluppare al massimo le abilità nascoste.
Su un altro versante, con riguardo alle persone con difficoltà gravi di movimento, senza bisogno di computer né di facilitatore, vengono usati allo stesso scopo alfabeti su tavole trasparenti, come quello sul quale ad esempio comunica Claudio Imprudente, presidente onorario del CDH di Bologna (Centro Documentazione Handicap), fissando con gli occhi le lettere, una per una, che un assistente posto dall’altra parte della tavola trasparente rileva e con le quali compone le parole e scrive libri, in italiano corrente.
Oggi esiste la possibilità di rilevare persino il pensiero di coloro che non possono neppure disporre dei movimenti oculari: infatti, è possibile rilevare con macchine già in commercio l’attività cerebrale di tali persone, che cambia quando pensano di essere seduti in una poltrona oppure quando pensano di correre. È sufficiente allora proporre loro domande a due risposte chiuse (ad esempio: “Se vuoi bere pensa a correre, se non vuoi bere pensa a stare in poltrona”), per ottenere la vera espressione della volontà del soggetto, anche quando è completamente paralizzato.
Questi problemi, tuttavia, non sono quelli tipici delle persone con autismo, che – non va mai dimenticato – in alcune rilevazioni di neuroimmagine erano state da tempo caratterizzate per il disfunzionamento del lobo temporale sinistro, che è proprio la sede del linguaggio».

In numerose occasioni lei ha sottolineato l’infondatezza scientifica della “Comunicazione Facilitata” (che d’ora in poi indicheremo generalmente come CF), procedura attraverso cui una persona incapace di espressione verbale autonoma viene supportata da un’altra persona (detta facilitatore) nell’uso di una tastiera o di un altro dispositivo che permetta la digitazione di lettere. Quali sono i rischi dell’uso di un metodo di comunicazione non validato scientificamente?
«Da sempre le Società Scientifiche Sanitarie negano la validità della CF (marchio registrato), sconsigliandola vivamente per i soggetti con autismo, tanto che alcuni di coloro che l’hanno utilizzata per primi la ritengono non più presentabile e hanno registrato un altro marchio (WOCE, Written Output Communication Enhancement), che cerca di accreditarsi all’interno della Comunicazione Alternativa Aumentativa (CAA).
Personalmente non ho approfondito se la CF o il suo derivato possa essere utile al di fuori dell’autismo, per coloro che hanno altri deficit. Si deve ricordare che essa è nata in Australia per le persone con spasticità grave, che pur comprendendo le parole e il loro uso comunicativo, non avevano la possibilità di proferirle né di scriverle. Tuttavia la spasticità non impedisce di esprimere a posteriori se ciascuna parola scritta lettera per lettera, con l’aiuto di qualcuno, corrisponde alla sua volontà, così come ho visto fare dal citato dottor Imprudente.

Giovane con autismo dell’Associazione AGRABAHLa trasposizione della CF dall’abilitazione delle persone con spasticità a quelle con autismo non ha un razionale, manca di basi scientifiche teoriche. La persona con autismo, infatti, descritta per la prima volta da Leo Kanner una settantina di anni fa, si può caratterizzare per il tipico linguaggio autistico, fatto, come già accennato, di “insalata di parole” (accozzaglia di parole), “ripetizioni a pappagallo” e uso dei verbi in terza persona anche quando l’azione si riferisce a se stessi. A differenza delle persone con spasticità grave, quelle con autismo non hanno impedimenti a proferire e a scrivere parole, ma la loro disabilità a livello cerebrale è molto più grave e riguarda il capire l’uso delle parole, sia in entrata che in uscita.
Come già ricordato, vi sono autistici che sanno proferire la parola “acqua”, ma non sanno usarla per chiedere da bere quando ne hanno bisogno. In questi casi riescono spesso a collegare la sete di acqua con la fotografia o il disegno della caraffa dell’acqua, ma non a collegarla alla parola scritta o parlata.
Il mutismo non è la caratteristica dell’autismo, ma vi sono autistici che non parlano – casi per altro sempre meno frequenti – da quando vengono trattati con interventi di educazione speciale precoce, intensiva e strutturata, basata sull’Analisi Applicata del Comportamento, che utilizza anche la Comunicazione Alternativa Aumentativa come la PECS e i tablet.
Il soggetto con autismo presenta in genere deficit a livello finomotorio e grossomotorio, ma non certamente al punto da impedirgli di scrivere da solo su una tastiera o di collocare da solo delle lettere su una tavola magnetica, componendo parole e frasi. L’intervento del facilitatore, quindi, rischia di essere un aiuto non soltanto inutile, ma dannoso, perché potrebbe addestrare il soggetto – che in genere è dotato di buona memoria – a digitare una serie di lettere e di parole che non corrispondono alla sua volontà. La cosa, per altro, potrebbe avvenire con facilitatori in perfetta buona fede, che potrebbero anche seguire alcuni spunti iniziali di parole casualmente digitati, completandoli con finali significative, cercando nel vocabolario parole anche desuete ed espressioni involute.
Onde evitare questo grave rischio, la cui attuazione porterebbe a una grave violenza sul soggetto, impedendogli di esprimere il suo originale pensiero e sovrapponendo ad esso quello del facilitatore, è necessario effettuare alcune efficaci prove la più semplice delle quali consiste nel chiedere alla coppia “facilitatore e facilitato” di rispondere a domande su fatti che sono a conoscenza del soggetto e non del facilitatore, come ad esempio “Cos’hai mangiato questa mattina?”.
Un’altra prova dell’autenticità della fonte dello scritto si ottiene mettendo un paravento divisorio che impedisca al facilitatore di vedere l’oggetto che sta di fronte al facilitato e viceversa. Secondo una vecchia indagine condotta in Gran Bretagna, se i due oggetti proposti alla coppia sono identici, la risposta che viene scritta è sempre adeguata, ma se gli oggetti sono differenti, nel 94% dei casi la parola scritta descrive l’oggetto che è visibile al facilitatore e soltanto nel restante 6% la prova viene superata descrivendo l’oggetto visibile dal facilitato. Si tratta di prove molto semplici che possono dimostrare l’autenticità dell’autore del messaggio scritto.
A Padova sono state effettuate analisi statistiche del linguaggio scritto con la CF (Bernardi, 2008), dimostrando che è differente da quello del facilitatore; e tuttavia, questa complicata prova non è molto convincente, poiché le condizioni di scrittura “in coppia” sono tali per cui questo risultato non stupisce più di tanto. In questo modo si può desumere soltanto che la coppia “facilitatore e facilitato” scrive con un linguaggio diverso da quello del facilitatore. Resta da spiegare la stranezza per la quale lo scritto contiene vocaboli non usati nella lingua corrente e costruzioni delle frasi molto arzigogolate. I contenuti sono molto elevati, spaziando dalla filosofia alle esortazioni morali e religiose, talvolta descrivendo storie antiche, come se facessero parte di vite precedenti. Anne-Marguerite Vexiau, che ha importato la CF in Europa, fa riferimento a una simbiosi della coppia di tipo paranormale.

Leo Kanner
Lo psichiatra Leo Kanner è stato il primo, circa settant’anni fa, a descrivere nel dettaglio le caratteristiche delle persone con autismo
Nessuno può giudicare se gli operatori della CF siano in buona o cattiva fede, ma colpisce comunque la riottosità delle coppie a sottoporsi a semplici e innocue prove come quelle indicate. Ricorderò sempre quanto mi disse una mamma che fungeva da facilitatrice per il suo ragazzo con autismo, nel treno che ci portava a Rimini per un convegno del Centro Erickson nel 2001: alla mia domanda se avesse sottoposto a una prova l’autenticità degli scritti del figlio, mi rispose se volevo toglierle anche quest’ultima illusione.
D’altra parte i casi letterari scoppiati con grande clamore anni addietro, come quello della cosiddetta “Ragazza porcospino” [autobiografia scritta facendo ricorso alla Comunicazione Facilitata da Katja Rohde, una donna interessata da autismo (Corbaccio, 2001), N.d.R.], il cui libro è stato tradotto in molte lingue, si sono poi spenti miseramente. Stupisce che oggi venga tradotto in italiano e molto pubblicizzato il libro di un ragazzo giapponese con autismo che avrebbe spiegato tutti i misteri della sua sindrome all’età di 13 anni [Naoki Higashida, Il motivo per cui salto. La voce di un ragazzo dal silenzio dell’autismo, Sperling & Kupfer, 2014, N.d.R.].
I media danno molto risalto al recente libro scritto da un giovane uomo con autismo e dal padre [Franco e Andrea Antonello, Sono graditi visi sorridenti, Feltrinelli, 2013, N.d.R.], senza che sia stata data una prova di autenticità. Si può ben comprendere il desiderio di sensazionalismo dei mezzi di comunicazione, “schiavi dell’audience”, e quello dei genitori che non accettano la realtà di figli con disabilità mentale e ricercano in tutti i modi la “diversa abilità” degli stessi, ma in un’economia dalle scarse risorse materiali e morali che caratterizza la famiglia con un componente autistico, dimostrata da una ricerca che la Fondazione Serono e l’ANGSA hanno fatto compiere al CENSIS nel 2012, ora pubblicata in sintesi (CENSIS, 2014), ogni grosso impegno, come quello richiesto dalla CF, non è soltanto inutile, ma diventa dannoso perché distoglie risorse dall’educazione speciale intensiva, la sola azione che finora ha dato prova di risultati positivi per migliorare la situazione del soggetto con autismo e della sua famiglia.
In conclusione si deve riaffermare quanto le Linee Guida di tutti i Paesi del mondo prescrivono, compresa quella italiana dell’Istituto Superiore di Sanità del dicembre 2011 [Linea Guida n. 21, “Trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e adolescenti”, N.d.R.]: la Comunicazione Facilitata non è consigliata per le persone con autismo. Ciò non toglie che vi siano dei casi nei quali una diagnosi sbagliata di autismo, che – non si dimentichi – viene effettuata da neuropsichiatri infantili mediante un’osservazione dei comportamenti e non oggettivata tranite un esame di laboratorio, possa essere smentita dal buon funzionamento della scrittura del bambino, che dopo essere stato educato a usare la tastiera ed essere incentivato con un prompt [letteralmente “suggerimento”, N.d.R.], diventa autonomo nella scrittura dei propri pensieri e delle proprie necessità.
A mio parere, l’uso generalizzato della CF in questo campo risponde alle attese occupazionali di coloro che si sono formati in questa metodica e alle attese illusorie dei genitori e dell’intorno sociale del bambino con autismo, che vorrebbero fosse una sorta di “tesoro nascosto”, un “genio incompreso”, ma non migliora affatto la situazione del diretto interessato. I “miracoli” più grandi della medicina sono quelli di guarigioni a seguito di diagnosi gravissime, ma errate».

Sia negli Stati Uniti, sia in Italia, ci sono stati dei casi in cui, attraverso l’uso della Comunicazione Facilitata, delle persone sono state accusate di violenza sessuale ai danni di persone autistiche. Ci parla di questi casi e di quali esiti hanno avuto quelle accuse?
«Credo vi siano pochi delitti tanto esecrabili come quelli compiuti su persone incapaci non soltanto di difendersi, ma anche di denunciare le violenze subite. Pertanto, quando si verificarono casi nei quali le bambine o le ragazze con autismo, servendosi della CF, dichiararono di avere subìto violenze sessuali, in genere da parte del padre, l’attenzione dell’autorità giudiziaria e quella dell’opinione pubblica furono sempre elevatissime. Nella scuola – dove la CF veniva praticata – agli scritti accusatori si dava credito e gli incartamenti venivano inviati alla Magistratura. Che io sappia, sono stati molti i casi occorsi, ma nessuno di questi ha dato luogo a condanne, perché i riscontri effettuati non comprovavano le accuse.

Scena del film “Pulce non c’è”
Una scena del film “Pulce non c’è”, tratto dal libro di Gaia Rayneri
La NAS (l’inglese National Autistic Society) e l’Associazione dei genitori americani, negli Stati Uniti e in Canada, hanno da tempo dovuto fare i conti con accuse scritte mediante la CF, soprattutto di violenze sessuali nei confronti di bambine con autismo.
Anche in Italia, a mia conoscenza, sono avvenuti tre casi simili, di cui due in Piemonte. Per uno di questi ho sostenuto l’innocenza dei genitori, poi provata tramite intercettazioni giudiziarie, facendo avere ai Magistrati inquirenti le raccomandazioni che Elizabeth Butler-Sloss [“Alleged abuse. A further concern of Facilitated Communication has been around accusations of abuse. There has been some use of this unproven technique in court cases in the USA. It is suggested that this has only been possible by courts evading their state’s test of scientific admissibility (Gorman 1999). In the first case brought in the UK relying solely on accusations obtained via FC a businessman was cleared of the sexual abuse of his 17-year-old son who has autism, epilepsy and who cannot speak (Rumbelow 2000). Dame Elizabeth Butler-Sloss, President of the High Court Family Division, condemned FC as dangerous and declared that it should not be used by British courts to support or reject allegations of abuse. Gina Green, director of research at the New England Centre of Autism, has previously likened the method to the use of ‘dowsing sticks and the ouija board’” N.d.R.], allora Presidente dell’Alta Corte Inglese per la Famiglia, aveva diramato e chiedendo loro quella verifica sull’autenticità del pensiero del facilitato che i facilitatori si erano ben guardati dal praticare.
In un altro caso l’illogicità delle accuse di favoreggiamento della prostituzione contro la parente che aveva la tutela della ragazza con autismo era così evidente che il Magistrato, dopo un nostro colloquio diretto, fermò le indagini, lasciando per fortuna la ragazza presso quell’unica parente che le faceva da madre».

Nel 2009 Gaia Rayneri ha pubblicato per Einaudi il testo autobiografico Pulce non c’è, sua opera prima, al quale Giuseppe Bonito si è ispirato per la realizzazione dell’omonimo film, nel 2012. Un linguaggio leggero, quasi candido, fa da contrappeso a una trama che annovera, tra i tanti temi, anche quelli dell’autismo e della violenza. Ritiene che queste due opere abbiano trattato in modo adeguato questi argomenti?
«Ritengo importantissimo che questo libro e/o questo film vengano conosciuti da tutti, non soltanto perché artisticamente rappresentano una forma di prosa e di cinema elevatissime, riconosciuta dai tanti premi vinti, ma anche perché narrano fatti veri che dovrebbero essere noti alle Autorità e all’opinione pubblica. L’ignoranza delle Autorità, infatti, ha permesso che la bambina “Pulce”, sorella minore di Gaia, venisse sottratta alla famiglia e rinchiusa in un istituto per ben nove mesi, prima che la falsità dell’accusa e l’innocenza del padre venissero riconosciute. La facilitatrice – che in precedenza aveva fatto credere ai genitori, agli insegnanti e ai compagni che la bambina fosse in grado di seguire i programmi scolastici fino alla terza elementare – era la vera autrice dei testi alla base dell’accusa. Alla verifica effettuata successivamente da psicologi nominati dall’Autorità è risultato che la bambina presentava un grave ritardo mentale, che le impediva di esprimere da sola gli scritti che tutti credevano fossero suoi. La famiglia ha subito gravissimi danni morali e il padre ha pagato anche fisicamente la vergogna per questa accusa infamante. Il film è recentemente uscito nelle sale cinematografiche e consiglio vivamente di andarlo a vedere».

Quali consigli darebbe a un operatore o a un’operatrice dei luoghi preposti al contrasto della violenza (Centri Antiviolenza, Associazioni di Donne, Pronto Soccorso, Ospedali, Forze dell’Ordine, Tribunali…), nel momento in cui debba cimentarsi con casi di presunte violenze ai danni di una persona con autismo?
«Consiglierei di informarsi anzitutto sulla storia dell’autismo e della Comunicazione Facilitata, perché non si ripetano gli errori e gli orrori del passato».

Un ringraziamento particolare a Martina Gerosa per la consulenza in materia di comunicazione nella disabilità uditiva cui si fa riferimento nella parte iniziale del testo.

*Il presente servizio è già apparso nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “Violenza sulle donne con disabilità: la comunicazione distorta”, e viene qui ripresa, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.